22 febbraio 2020 – 22 febbraio 2021

Un anno fa, alle 18.30 scattai questa foto.
Il treno era in ritardo e non partiva. Visto il cielo, lasciai il monopattino al mio posto e scesi a scattare una foto.
Sapevo che era un momento incerto, sapevo che qualcosa stava succedendo e quando sento queste emozioni, scatto le foto.

Fu l’ultima volta che presi il treno. Quella stessa sera ci arrivó l’email con cui l’azienda annunciava che per precauzione era meglio stare in smartworking.
Ho questo ricordo di un tramonto su Milano vista da Greco Pirelli, di un ritorno in ritardo, di colleghi in ufficio che avevo salutato come sempre. Ma ero felice. Giuro.Come tutte le sere, al ritorno, seppur tardi, seppur in ritardo.

Questa felicità era dettata dalla gioia del posto in cui lavoravo, dai colleghi con cui si condividono gioie e riunioni, della realizzazione nel fare il lavoro dei miei sogni. La felicità di riuscire a fare cose abbassando la guardia degli attacchi di panico, di idee brulicanti, eventi, viaggi, numeri, budget, risate, palestra in azienda, metro, pranzi smart e mense tristi.

Poi da quella sera, dopo la email, dopo il tg, l’incertezza. Non ancora spavento. Un senso di dubbio che non mi sono scollata ancora di dosso.
Da lì una solitudine altalenante ma crescente, che dopo un anno è diventata normalità.
Non è normalità non poter abbracciare, non poter correre per paura di perdere il treno, non andare in ufficio e condividere idee.

Rivoglio questa normalità. Rivoglio la mia vita che ho costruito con fatica, con paure, ansie e lacrime. Con colleghe magnifiche che mi accompagnavano in metro per farmi raggiungere obiettivi, con sconosciuti che mi hanno sostenuto, con salti nel vuoto che si sono rivelati “la cosa più bella che potessi fare”. Rivoglio vedere il mio capo, i colleghi, le brioches, le spremute. Rivoglio quei momenti che mi hanno fatto trovare nuove amicizie. Rivoglio i miei viaggi in treno con sconosciuti e con facce amiche.

Ma sono qui, dietro uno schermo, nello studio, da un anno, da sola.

 

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